Piano Nex Generation EU: Una “mina” per ridisegnare l’economia della Penisola *

di Roberto BEVACQUA *

NON ci si salva da soli. Potrebbe essere questa la frase che racchiude il senso interventista di un Europa spesso allo sbando, non di rado adagiata su posizioni teutoniche e cordate nordiche di stampo austerity; il più delle volte apparsa come un’armata Brancaleone troppo attendista sugli scenari geopolitici e incapace di dettare il passo forte del prestigio di una comunità che racchiude 446 milioni di persone, 27 paesi con 24 lingue parlate.

Matrigna benigna l’Europa però, che non può essere stigmatizzata e vista solo come un’impositrice di dettami normativi ingessanti e regole finanziarie opprimenti, ma anche come un’istituzione garante della pace del continente e del libero scambio di merci e persone. Un istituzione che, seppur con grandi incongruenze, ha battezzato una moneta unica che ha azzerato la volatilità dei tassi di cambio delle monete, certamente togliendo margini di manovra a quei paesi come il nostro che in certe situazioni potevano svalutare e aumentare la competitività delle proprie merci, ma ha anche stabilizzato i prezzi e reso più sicure le banche, coordinato in parte i bilanci pubblici nazionali e investito risorse in settori strategici per l’economia europea in generale e quindi, di riflesso, a vantaggio di ogni singolo stato.

Non ci si deve schermare dietro le critiche, spesso giuste, all’Unione per le incapacità del nostro Paese a cogliere le trasformazioni in atto soprattutto in questo ultimo decennio.

Le infrastrutture materiali e immateriali, progettate dall’Europa, sono state e saranno un banco di prova importante per ridisegnare la Nazione all’interno dei corridoi digitali e infrastrutturali europei. Un’opportunità di collegamento delle reti e delle piattaforme che, dall’Europa e nell’Europa, dovranno assicurare una maggiore connettività delle persone, delle merci e delle imprese anche e soprattutto in vista del nuovo Green Deal europeo che dovrà garantire al vecchio continente un tessuto produttivo a impatto zero per il 2050. Impegno arduo che riguarderà soprattutto un paese come il nostro, sempre in ritardo a seguire una via europea attraverso il modus operante Mady in Italy. Impegno che non può essere svincolato da una visione allargata degli interessi della Unione verso ciò che sta accadendo in altri contesti geopolitici.

Gli investimenti cinesi in Africa, l’apertura di nuovi collegamenti economici artici, la presenza nel mediterraneo di Russia e Turchia, gli interessi particolaristici di Francia, Inghilterra e Germania, che spesso sono confliggenti con quelli sempre più marginali del nostro paese, dovranno porre serie questioni  di indirizzo programmatico sia in ambito interno che internazionale, indirizzo volto a ristrutturare in modo definitivo l’aspetto competitivo della penisola e a tutelare gli interessi nazionali all’interno di una geopolitica fluttuante, obiettivo che al momento sembra ancora lontano da una sensibilità politica troppo volta a cannibalizzarsi su questioni marginali di rendite di posizione locali.

Non ci si salva da soli, dunque, è lo slogan che dovrà ispirare la sensibilità delle forze politiche nazionali ed europee, perché il sistema è interconnesso e ogni singola falla, ogni nodo nella rete dello sviluppo economico e infrastrutturale del continente, si ripercuoterà necessariamente sui vari gangli della struttura competitiva dei singoli stati.

Questa visione non è una nuova percezione dell’interconnettività funzionale degli stati europei riuniti sotto la bandiera a stelle, ma recupera la visione ispiratrice della stessa comunità europea, che salda  una visione di unità e solidarietà degli Stati alla visione politica programmatica dei territori, alla coesione sociale  lo sviluppo e il benessere delle popolazioni che la abitano, alla competitività delle sue aziende una mobilità efficiente e sostenibile…insomma un economia forte che faccia gli interessi del continente senza particolarismi, vigilando affinché ogni stato spenda le risorse messe a disposizione all’interno della visione di sviluppo dell’Unione e in funzione anche delle peculiarità insite ai modello di sviluppo che caratterizzano ogni singolo Paese.

Focalizzando la lente sulle risorse che serviranno a ridisegnare l’Europa e nello specifico il nostro Paese, accanto ai fondi di bilancio nazionale, il piano Nex Generation EU appare come l’ancora di salvataggio cui agganciare la nave Italia. La strategia del piano prevederà impatti sull’innovazione e la ricerca, sulla transizione energetica delle imprese e la transizione digitale, sulla riconversione green dell’economia e la connettività e mobilità delle reti infranazionali. Saranno oltre 200 miliardi di euro quelli da investire, utili a ridisegnare l’economia e la società della penisola attraverso investimenti e riforme in grado di supportare e generare la crescita della nostra economia rendendola più efficiente, più ecologica, digitale e resiliente per affrontare i cambiamenti tecnologici in atto, stabilizzando la crescita della ricchezza, il miglioramento della qualità del lavoro e dei servizi ai cittadini, la coesione sociale nei territori.

Un grande salto, dunque, verso un nuovo modo di vivere e operare, produrre, viaggiare e comunicare che per quanto ci riguarda non può avvenire se non si risolvono prioritariamente almeno tre questioni cardine. La prima è una riforma sostanziale della formazione che recuperi e potenzi i saperi individuali e collettivi e il potenziamento e la riqualificazione dell’istruzione che parifichi le performance della scuola e dell’università italiana, sia all’interno dei propri parametri nazionali che a quelli standard europei, senza dimenticare che l’istruzione va di pari passo con l’educazione.

La seconda questio, del tutto italiana, sta nel “riequilibrio territoriale” che ha visto divaricare le aree del Paese sempre più ad ogni crisi, i cui motivi sostanziali e non ideologici sono riassumibili nel mancato intervento riequilibratore dello Stato dal punto di vista degli interventi infrastrutturali del mezzogiorno, nell’insufficiente dotazione di risorse e investimenti nei servizi essenziali e strategici delle aree marginali del paese, con un visione miope e provinciale della competitività della nazione che oggi sconta ritardi concorrenziali e una scarsa influenza geoeconomica e commerciale, proprio in una delle aree più strategiche del continente: il Mediterraneo.

Infine l’altro vulnus nazionale è la farraginosa sequela burocratica che va necessariamente riformata, digitalizzata e snellita, per sbloccare tutte quelle opere pubbliche di cui questa nazione ha un indispensabile bisogno.

Ranking 2020 del DESI *

Un’ultima riforma, che sta nelle cose, è quella più difficile da attuare: è il cambiamento etico nell’approccio sulle questioni della res pubblica, nel modo di pensare alle necessità programmatiche del Paese, nel modo di considerare le opportunità di crescita e di impiego delle risorse pubbliche, la sentita necessità di formare una classe dirigente seria e preparata che abbia nell’interesse della nazione un principio ispiratore condiviso.

Solo cosi l’ambizioso piano europeo NGEU da attuarsi attraverso il PNRR e che prevede un  impatto positivo sul Pil al 2026, anno di conclusione del Recovery Plan, di 3 punti percentuali,   potrà risolvere positivamente i nodi gordiani della crescita delle competenze, del riallineamento dello sviluppo del mezzogiorno con le altre aree del paese, l’inclusione sociale e le prospettive occupazionali che, necessariamente saranno attraversate da tensioni e cambiamenti nel breve periodo e potranno stabilizzarsi, crescere e rinnovarsi nel medio termine attraverso la transizione ecologica,  la digitalizzazione e l’innovazione del tessuto economico nazionale.

*Direttore di Krysopea Institute

* Fonte: European Commission

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