Crisi sistemica o eutanasia del Bel Paese: quale futuro per l’Italia? *

di Roberto BEVACQUA *

Sono lontani i tempi in cui l’analfabetismo era la regola e le discriminazioni scolastiche la costante. Lontani i tempi di un Italia rurale e arretrata, specie in alcune aree della Penisola, dove ai divari geografici di sviluppo, al disagio sociale e alle le condizioni di povertà e isolamento si sommavano importanti dislivelli educativi e formativi, acuendo i differenziali di progresso socioeconomico e partecipativo. Cosa è cambiato dall’unità a oggi, o se vogliamo restringere il campo di osservazione cosa è mutato dal Dopoguerra ai giorni nostri. Molto direi. Innanzitutto l’immagine del Paese, la sua forza economica e manufatturiera, l’infrastrutturazione spinta negli anni del boom proseguita in ogni settore economico. La ricostruzione post bellica è passata attraverso l’apertura dei territori, la tutela e la valorizzazione dei luoghi, l’ammodernamento delle città, la garanzia di diritti, l’elevazione del reddito, lo sviluppo tecnologico e infrastrutturale degli asset nazionali, l’incredibile accelerazione dei modelli industriali made in Italy con la nascita e l’espansione di piccole e medie imprese a fare da cornice e supporto ai colossi dell’industria privata e a quella di Stato. In cinquant’anni è mutato il volto della nazione, strade, autostrade, ponti, ospedali, scuole, università, crescita sociale e umana. Investimenti interni e investimenti esteri, dipendenza politica, speculazione e malaffare, ma anche espansione economica e strategica fuori dei nostri confini. Tutto sommato però oggi l’Italia è una nazione che muove passi meno incerti verso la maturità, nonostante mostri, a volte, con una sorta di masochistico compiacimento, l’abito peggiore, fatto di vizi e luoghi comuni. Il Paese ha saputo conquistare spazi assertivi su ogni tavolo contrattuale, diplomatico, energetico e commerciale. Forse non la più piccola delle grandi ma neanche la più grande delle piccole forze geoeconomicostrategiche del pianeta. Eppure, in questo breve cammino che ha caratterizzato poco più di mezzo secolo, qualcosa abbiamo lasciato per strada e rischiamo di perderlo definitivamente se il Paese non mette la questione del riequilibrio dei territori e dell’istruzione al primo posto dell’agenda istituzionale. Non siamo stati capaci di comprendere, come invece ha fatto la Germania, che una nazione unita geograficamente, economicamente, strutturalmente, culturalmente e logisticamente ha un vantaggio competitivo eccezionale, poiché si muove con un interesse condiviso, un sistema paese forte e diversificato e con un soft power incisivo e persuasivo.

Accanto ai differenziali di crescita tra aree forti del Paese e aree deboli si pone dirimente la questione di un riequilibrio della qualità dei servizi garantiti e tra questi pari livelli di offerta formativa e educativa.

L’istruzione che negli anni ha sostenuto la crescita sociale, economica e tecno scientifica del Paese, oggi appare l’anello debole del sistema portante dello sviluppo socioculturale italiano

Definire il valore dell’istruzione di una nazione appare elemento difficile in quanto tocca tutti gli ambiti del sapere e del saper fare, ogni settore, l’essenza stessa dell’architettura culturale, istituzionale, economica, giuridica e scientifica di un popolo, sedimenta i valori condivisi, valorizza le potenzialità sistemiche e lo difende dall’esterno in quanto rafforza il corpo democratico e le istituzioni, rendendo i cittadini più protetti da manipolazioni e maggiormente consapevoli. Eppure ad analizzare i dati sull’abbandono scolastico, sugli indici di preparazione degli alunni, attraverso prove e test sulle competenze, ne esce un quadro disarmante per la scuola italiana, in media, rispetto a quella di molti, moltissimi paesi. Che si sia in piena emergenza educativa è sotto gli occhi di tutti o quasi. Intellettuali, pedagogisti, enti di ricerca, fondazioni specializzate si interrogano da anni sul declino cognitivo e le inefficienze strutturali della scuola. Si attende una riforma, legata a vincoli di spesa del PNRR, che sciolga molti dei nodi che rendono la scuola e l’università italiana statica e non più adatta a sviluppare le grandi potenzialità del capitale umano, elevando le competenze di base. È paradossale che la società italiana non avverta questo problema come prioritario e lo è ancora di più per quelle famiglie del meridione d’Italia poco interessate al livello di preparazione dei propri figli rispetto ai voti conseguiti, il più delle volte non correlatati alle competenze acquisite, visto che in alcuni settori educativi la formazione non raggiunge standard minimi nel 70% dei casi. Le criticità verificate attraverso l’OCSE Pisa e le prove Invalsi mostrano a livello medio grandi difficoltà nella comprensione di un testo, nel ragionamento scientifico e nelle abilità non cognitive, che stanno mettendo in crisi il sistema educativo come lo conosciamo. Si ha difficoltà a comprendere che l’istruzione non ‘è solo competenza e formazione fine a se stessa; certo l’istruzione prepara l’individuo verso il mondo del lavoro, rafforza l’assertività, l’autostima, quella sicurezza indispensabile per affrontare la vita. Ma un sistema educativo ottimale rafforza soprattutto la capacità di rapportarsi con l’esterno oltre con se stessi, aiuta a essere cittadini consapevoli a interessarsi degli altri, a comprendere l’informazione e a difendersi dalla disinformazione che contraddistingue questo tempo inondato da elevati processi di datizzazione che producono un flusso costante di informazioni digitalizzate non sempre verificabile e dagli usi non sempre legittimi. Le società sono e diventeranno sempre più complesse e globalizzate, ciò richiederà competenze articolate, capacità di adattamento e una formazione costante, alternata al lavoro, che muterà a velocita sempre maggiori. L’ibridazione tra universi fisici e digitali richiederà abilità e istruzione adeguate favorendo opportunità lavorative che l’intelligenza artificiale e la tecnologia muteranno, ma anche creeranno, nel prossimo futuro. Le nazioni che più investono in istruzione, in una buona istruzione aggiungerei, aumentano il loro grado di competitività, la loro penetrazione economica, la mobilità intragenerazionale e sociale. I Paesi come il nostro la cui spesa in istruzione e infrastrutturazione scolastica è bassa, sotto la media europea, lasciano aperti problemi di crescita e di adeguamento delle risorse umane al mutamento del paradigma tecnologico, generando una perdita potenziale di PIL e un decadimento del loro sistema competitivo, creando i germi di un futuro disagio sociale e di una dipendenza strutturale a sistemi organici di potere.

Ciò pone altre questioni dirimenti sul futuro del Bel Paese; la prima questione è come riequilibrare la nazione dal punto di vista dell’istruzione media col resto dei paesi avanzati. La seconda questione è come equilibrare i livelli di istruzione e formazione e quindi di educazione tra le diverse aree del Paese, specialmente di quelle più a sud, come la Sicilia e la Calabria in primis, che scontano ritardi collocandosi al fondo della classifica europea e non solo.

Partendo dal secondo problema, è certamente fondamentale una presa di coscienza non solo delle Istituzioni, perché la questione geografica non può penalizzare gli studenti meridionali che, accanto a problemi atavici di ritardo infrastrutturale dei territori, disequilibri di sviluppo e livello non garantito dei servizi primari, devono scontare un differenziale penalizzante di offerta formativa all’interno di strutture scolastiche prive, spesso, di tecnologie e strumentazioni applicative, ospiti di edifici fatiscenti e di ambienti marginalizzanti. Il Paese ha bisogno di recuperare competitività, risorse umane qualificate, menti pensanti, ha necessità di guardare al futuro sapendo che una nuova classe dirigente si sta formando su basi solide per garantire continuità alla Nazione, per fronteggiare i mutamenti che i nuovi paradigmi tecnologici e le nuove frontiere del sapere stanno generando. La tenuta sociale ed economica del Paese si misurerà nelle transizioni in atto e in quelle che verranno. La qualità delle istituzioni e la solidità dell’economia si misurerà dal valore e dalla compattezza del capitale intellettuale e sociale che avremo saputo formare. Intelligenza artificiale, domotica, robotica, computer neurale, biotecnologie, universo quantico, metaverso, queste le frontiere aperte dai nuovi processi di sviluppo della tecnologia su cui filosofi e scienziati si interrogano per ciò che riguarda il mutamento del nostro vivere e il rapporto tra mondo fisico e mondo virtuale, tra ibridazione e mutamento della società. Queste sfide richiederanno un Paese preparato al confronto con questi temi, una società capace di affrontare l’impatto con sistemi di comunicazione globale, con una datizzazione spinta ai massimi livelli, e ciò significherà avere non solo competenze per gestire queste informazioni e questa pervasività digitale ma anche sapersi difendere da un eccesso di informazione e disinformazione che i sistemi avanzati di comunicazione produrranno nel mondo, nell’ ipermondo, nell’infosfera e nel metaverso che stiamo costruendo.

Per fare questo bisogna abbandonare l’idea della scuola come diplomificio, le duplicazioni di corsi universitari regionali, la competizione universitaria sul numero di iscritti senza una qualificazione e una specializzazione vera dei settori. Unificare un percorso di studi paritetico obbligatorio per tutti che non spinga verso il basso i livelli di qualità di educazione e istruzione ma che premi la meritocrazia e l’impegno e allo stesso tempo abbia sistemi di recupero e di stimolo per chi è in difficolta. Questo implica però una profonda riforma della scuola e dell’ università, l’abolizione, prima di tutto concettuale, del corporativismo dei docenti che riduca l’autoreferenzialità e passi per una autoriflessione sulle criticità dei risultati, sui sistemi di insegnamento superati, basati esclusivamente su lezioni frontali, dove non si premia la creatività, la multidisciplinarietà, la capacità di selezionare e ricomporre informazioni critiche, le licenze fuori programma per esasperare un concetto. Bisogna riformare i sistemi di reclutamento dei docenti all’ingresso della vita lavorativa, verificando non solo i saperi ma il saper trasmettere sapere, è necessario predisporre una formazione obbligatoria e periodi di riqualificazione calendarizzati negli anni, un indice di gradimento dei docenti che vada a costituire insieme agli altri indici un valore critico per avanzamenti più liquidi di carriera e solo così, poi, garantire stipendi più in linea con quelli europei. Questo il vero tasto dolente di un Paese che preferisce guardare oltre i suoi veri problemi, che ama risvegliarsi in piena crisi, quando poi l’unica alternativa è rincorrere. Oggi però la sfida è di quelle definitive, o si decide di investire e riformare un settore strategico e vitale per il Paese o si accetta di tenere i propri vantaggi e si sacrifica il futuro e il lavoro dei giovani, accettando che da qui ai prossimi trent’anni non saremo più in grado di reggere l’urto di quei Paesi, europei ma soprattutto asiatici, che con un sistema di istruzione eccellente occuperanno tutti gli spazi economici, e tecno scientifici che, già oggi, per il nostro Paese appaiono a rischio. Oggi gli investimenti in istruzione sono bassi, così come la spesa in ricerca e sviluppo è sotto la media europea, così come la qualità istituzionale, gli indici di innovazione tecnologica delle imprese e la digitalizzazione della P.A. ma anche   la scarsa internazionalizzazione economica di intere aree del paese. Incrociando questi dati è facile immaginare un corto circuito nel lungo termine del sistema Paese. Se le famiglie capiranno che non sono i voti, né il facile diploma a garantire un lavoro, una formazione adeguata e un’educazione solida ai propri figli, ma che è solo una scuola di qualità, che trasmette sapere e competenze, a fornire opportunità e sviluppo, allora impareranno a giudicare e a scegliere tra istituti e istituti, spingendo al confronto e innalzando la qualità di scuole e docenti.

L’investimento in conoscenza fa aumentare la produttività, la crescita del capitale sociale, la competitività di un Paese ed è un presupposto per ricerca e innovazione.  È su questa potenzialità strategica, dunque, che bisogna interrogarsi per sostenere realmente ogni politica di tutela e salvaguardia dell’interesse nazionale.

*Direttore di Krysopea Institute

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