Cosenza nella Divina Commedia *

di Luigi Michele PERRI *

 “SE IL PASTOR di Cosenza, che alla caccia/ di me fu messo per Clemente, allora/ avesse in Dio ben letta questa faccia,/ l’ossa del corpo mio sarieno ancora/ in co del ponte presso a Benevento,/ sotto la guardia della grave mora./ Or le bagna la pioggia e move il vento/ di fuor dal regno, quasi lungo il Verde,/ dov’è le trasmutò a lume spento”. Così Cosenza entra nella Divina Commedia, quando, nel Purgatorio, Manfredi, l’ultimo monarca della dinastia sveva nel Regno di Sicilia, scomunicato e perseguitato dal papato, espone il suo tormento a Dante. Sono le tre terzine (vv. 124 – 132) del terzo canto del capolavoro dantesco, tra le più scandagliate dagli studiosi sia per la somma ispirazione profetica del Poeta, sia per il severo monito etico rivolto ai papi e alla chiesa del temporalismo della sua epoca (e di quelle successive) sino al punto di indirizzare loro una indelebile lezione, nient’affatto arbitraria, sulla vera natura di Dio, sia per le forme di contrappasso che portano a considerare quei “falsi pastori senza amore e senza pietà” come i veri scomunicati. La citazione del vescovo cosentino evoca la morte di re Manfredi, ghibellino, peccatore dedito ai piaceri della vita, strenuo difensore del suo regno, fiero condottiero, ucciso in battaglia dagli Angioini, a Benevento, nel 1266. Ma non è solo l’escursione dantesca sulla Suprema Giustizia dell’Aldilà a segnare uno dei momenti più coinvolgenti dell’opera. Piuttosto, è il suo movente a dare ancora più forza alla narrazione, ossia la stessa collocazione del monarca nel Purgatorio, una destinazione ben diversa da quella che gli era stata comminata dalla giustizia terrena, ovvero dalla giustizia ecclesiale, per l’effetto infernale di una e più scomuniche, pronunciategli contro da almeno tre papi. Dante incontra l’anima di Manfredi, il sovrano che aveva dedicato la propria esistenza terrena a consolidare la sua egemonia nel regno del Sud e, per questo, inviso alla Chiesa e colpito dalla maledizione sentenziatagli dal papa che su quel regno avrebbe voluto estendere il proprio dominio. L’insanabile conflitto portò alla discesa di Carlo d’Angiò di Francia, che, alleato del pontefice di Roma, affrontò e sconfisse Manfredi con il suo esercito nella campagna beneventana, ossia nel bel mezzo del feudo romano delegato alla dinastia angioina. Il pastore di Cosenza fu incaricato da papa Clemente IV di scovare il cadavere del re per disperderlo al di là dell’enclave pontificio di Benevento, in ossequio al decreto ecclesiastico che non permetteva agli scomunicati la sepoltura in terra cristiana. La missione fu compiuta. Nel dialogo con il poeta, traspare tutta l’afflizione del monarca per il fatto che i propri resti non si trovino più nel suo ex regno, al contrario di quelli degli antenati che avevano avuto degna sepoltura nelle terre conquistate, e questo nonostante le scomuniche loro inflitte in vita dal trono pontificio. Il re prega Dante di rintracciare, una volta tornato in terra, sua figlia per rassicurarla sul suo stato in Purgatorio, dove si trova per Volontà divina, nonostante l’anatema che avrebbe dovuto costargli la dannazione eterna. Manfredi dice a Dante: il cieco mondo ignora le Leggi Universali, la Misericordia del Divino Amore e le Grandi Verità. E racconta che, trafitto mortalmente, volle affidarsi, in estremo pentimento, a “Quei che volentier perdona”, ricevendone, malgrado gli “orribil peccati” commessi, il beneficio della grazia purgatoriale. Se, come lo stesso Manfredi si esprime nei versi danteschi, il vescovo di Cosenza, mandato a caccia del mio corpo, avesse conosciuto questo misericordioso aspetto della Suprema Bontà, le mie ossa sarebbero ancora sul ponte del fiume Calore, presso Benevento, seppellite sotto un cumulo di pietre. Ora, invece, le bagna la pioggia e le muove il vento fuori dalla mia terra di Napoli, quasi sulla riva del fiume Verde, dove il vescovo (Bartolomeo Pignatelli, secondo i più; il suo successore Tommaso d’Agni, secondo gli altri. Cfr. Treccani) le aveva trasportate, compiendo la missione ordinatagli da papa Clemente. Evidentemente, per le scomuniche non si perde la possibilità della salvezza, come alla fine sostiene l’anima del re, e questo perché, spesso, neanche la Chiesa e i suoi sacerdoti arrivano ad immaginare e a concepire la Saggezza e la Bontà infinite del Signore.  

*Giornalista e scrittore 

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