Un sacerdote povero e amabile. La storia di don Francesco Salvino, religioso di origini roglianesi

di Enzo GABRIELI *

A MEZZO secolo dalla morte (la data non è ancora certa perchè si attendono notizie dal Brasile) la comunità parrocchiale di Mendicino ha voluto ricordare con un videoracconto fotografico la fiugura di don Francesco Salvino (nella foto). Sacerdote e parroco di San Nicola si adoperò per la costruzione della chiesa dell’Addolorata e la cura pastorale della Comunità di Rizzuto. Nei giorni scorsi, oltre al video realizzato da Franco Barca e dalla compagnia teatrale che porta il suo nome, è stata anche posta un targa in pietra nel piazzale a lui dedicato. Il ricordo dei padri che ci hanno generato nella vita e nella fede è doveroso e raccomandato dalla Scrittura. Così facciamo per don Francesco Salvino, da tutti chimato amabilmente don Ciccio. La bontà è senza dubbio la virtù più luminosa dell’animo umano e l’uomo buono e amabile viene ricordato sempre, anzi il ricordo di lui cresce col passar del tempo perché dell’uomo, mentre finiscono le forme fisiche, restano vivi lo spirito e le virtù.

Francesco Salvino era nato il 14 febbraio del 1898 a Guambassù, un piccolo paese dello Stato del Parà, poco distante dalle vaste foreste equatoriali e dal luogo dove il Grande Rio delle Amazzoni sfocia col suo imponente estuario nell’Oceano Atlantico. Il padre Felice Salvino era un italiano originario di Rogliano, il quale in giovane età era emigrato in Brasile, dove aveva trovato una buona occupazione in un cantiere navale, ivi aveva sposato una donna del luogo Maria Emilia dello Spirito Santo, dalla quale aveva avuto tre figli, due femmine ed un maschio, Francesco. Questi, ancor ragazzo, per ragioni di salute, forse gli era nocivo il clima eccessivamente caldo umido della zona equatoriale fu mandato in Italia, certamente presso qualche parente di Rogliano, quivi frequentava assiduamente la parrocchia sotto la guida di don Michele Caruso, con tanto fervore che ad un certo momento manifestò l’idea di farsi sacerdote per dedicare più da vicino la sua vita al Signore ed al servizio del popolo. Cosi nel 1913, aveva 15 anni, entrò nel Seminario di Cosenza dove frequentò tutto il corso di studi, dalla classe di preparazione per l’ammissione al ginnasio inferiore fino all’ordinazione sacerdotale, ricevendone una solida preparazione culturale e religiosa. Erano i tempi in cui del seminario era Rettore l’insigne sacerdote monsignor Raffaele Parise che donò tutti i suoi beni al Seminario e i professori sia alti ecclesiastici che nella cittadinanza cosentina ed oltre. Godevano di grande prestigio ed estimazione per la loro dottrina: Gallo, Dattilo, Petrone, Foglia, Cozza, Sironi, Reda, il nostro Giuseppe Reda di Mendicino ed il grande Francesco Bartelli, famoso per il suo commento all’opera di Galeazzo da Tarsia.

Egli si compiaceva di avere avuto maestri ed educatori cosi illustri, come era felice di ricordare di essere stato compagno di studi di giovani bravissimi come Antonio Lanza da Castiglione Cosentino che poi fu arcivescovo di Reggio Calabria e che certamente sarebbe stato elevato alla porpora cardinalizia se non fosse stato prematuramente colto dalla morte e Luigi Caputo, da Mendicino, avvocato e poi consigliere della Corte dei Conti a Roma. La sua condotta in Seminario fu esemplare per la profonda pietà, la socievolezza, lo spirito di lealtà come anche per il serio impegno nello studio, benvoluto dai compagni di studio e stimato dai superiori. I giudizi delle autorità ecclesiastiche e dei docenti su di lui, per il comportamento ed il conferimento degli ordini sacri, furono tutti lusinghieri di modo che il 20 giugno del 1925, prima che fosse ordinato sacerdote, poteva fare il sacro giuramento con le seguenti parole riportate: “Giuro di dedicarmi al servizio della diocesi cosentina”. L’arcivescovo Tommaso Trussoni, aveva visto crescere in età e pietà Francesco ne conosceva lui solo le sofferenze e le sventure capitate alla sua famiglia e per questo aveva preso a volergli paternamente bene. Ricevuta la sua istanza si premurò di trasmetterla immediatamente alla Sacra Congregazione cui era indirizzata con una calorosa lettera di accompagnamento scritta di suo pugno. Cosi dopo il solenne giuramento innanzi citato, il giorno dell’Assunzione del 1925, don Francesco Salvino veniva consacrato sacerdote dall’arcivescovo Trussoni, nella sua cappella privata, il quale un mese dopo lo destinava come parroco nella Parrocchia San Nicola di Bari a Mendicino.

L’ingresso nel paese e nella parrocchia fu trionfale, vi era tutta la popolazione con le autorità e la banda musicale che erano andati ad accoglierlo all’inizio del paese superiore con una esultanza. Memorabile il sentimento con cui celebrò la Santa Messa, il suo primo indirizzo di saluto alla popolazione in cui disse di voler dedicare tutte le sue energie per il bene del paese ed in particolar modo dei giovani e dei bisognosi, aveva dato il segno di una volontà operativa che suscitò in tutti sentimenti di entusiasmo e di collaborazione. Subito si occupò dei lavori di restauro della chiesa e si impegno assiduamente per la costruzione del convento attinente alla medesima che oltre ad ospitare le suore doveva servire per le altre attività parrocchiali. Molti giovani venivano attratti da questo giovane prete innovatore. Nello stesso periodo fondò “Le Piccole Crociatine”, associazione cattolica per sole ragazze sotto il titolo di Santa Agnese, che all’epoca era composta da 8 dirigenti, 30 soci effettivi, 20 aspiranti, 15 beniamine e 18 piccolissime. Le associate si ritrovavano ogni domenica alle ore 8,00 presso la sede dell’associazione dopo l’introduzione dell’assistente spirituale per le lezioni di cultura religiosa e l’esercizio dei canti liturgici. Per i giovani ed i ragazzi fondò l’Azione cattolica intitolata al Sacro Cuore di Gesù e la Filodrammatica.

Una delle opere più belle di don Salvino è certamente la chiesetta di contrada Rizzuto dedicata alla Madonna Addolorata della quale era fortemente devoto. Nel 1936, mons Roberto Nogara posò la prima pietra per la costruzione, i lavori eseguiti dalla gente del luogo terminarono nel 1939. Nello stesso periodo la parrocchia cominciò ad avere le prime difficoltà economiche e don “Ciccio” fu costretto a sospendere i lavori nonostante la disponibilità gratuita dei fedeli. Decise di partire per il Brasile portando con se la madre, sperando di trovare presso i parenti di costei i fondi per terminare i lavori iniziati. Tornò nel ’41 con i soldi necessari ma sulla sua strada trovò padre Pio Perri, ormai parroco da due anni. A malincuore fece marcia indietro, per oltre due mesi rimase ospite di don Eugenio Romano, suo fraterno amico, parroco presso la Chiesa di Santa Teresa in Cosenza. Dopo questo breve periodo, don Francesco riparti definitivamente per il Brasile. In una lettera datata gennaio 1946, il vescovo di Rio de Janerio, indirizzandola al vescovo di Cosenza, mons. Aniello Calcara, sottolinea le doti pastorali del nostro sacerdote messosi a disposizione e a servizio della Chiesa di San Sebastian: “Don Francesco Salvino è un uomo buono, squisito nel tratto, affabile nel parlare, opportuno nell’esortare, accorto nel consigliare, efficace nell’azione, fedele sempre nell’adempimento del suo ministero”. Vivo, energico di spirito, sempre sereno, assiduo nella preghiera, pieno di fervore, fermo nei propositi, saldo nella virtù, perseverante nella grazia e sempre coerente, severo con se stesso, indulgente con gli altri.

Negli anni ’50, ritornò in Italia per un breve periodo, sempre ospite di don Eugenio, non mancò di fare visita alla tomba del padre, sepolto nel cimitero di Mendicino ed ai suoi vecchi parrocchiani che lo ebbero come padre spirituale per ben 14 anni. Grande fu l’entusiasmo dei fedeli, quella visita inaspettata risvegliò grandi ricordi, qualcuno pensò ad un suo ritorno, fu solo un’illusione: don Francesco Salvino non fece più ritorno, manteneva solo la corrispondenza con don Luigi Ruffolo che per la sua vocazione indirizzò al sacerdozio. Negli anni ‘70 giunse la notizia che don Salvino aveva lasciato questa terra per raggiungere il Padre Celeste. Per iniziativa dei più dei più affezionati suoi vecchi collaboratori fu celebrata una messa di suffragio nella chiesa parrocchiale che lo ebbe alla guida per ben 14 anni. Un suo vecchio parrocchiano lo ricorda con queste parole: “Quando usciva dalla chiesa, terminata la celebrazione della Messa, ai gradoni lo aspettavano i poveri e tutte le persone che avevano bisogno. Don Ciccio, distribuiva l’obolo che gli veniva offerto per la celebrazione e qualche altra cosa, tutto quello che raccoglieva lo destinava alle famiglie bisognose che, specialmente sotto il periodo fascista, soffrivano la fame più di ogni altra cosa mentre lui preferiva cibarsi di preghiera e digiuno. Tutte le sere lasciava aperta la porta della sua casa e sulla tavola metteva un pane ed andava a letto, sapeva infatti che qualche ritardatario affamato gli avrebbe fatto visita durante la notte. Ha seminato tanto bene lottando per la giustizia e l’uguaglianza, anche se la gran parte dei mendicinesi non lo ha riconosciuto, basta pensare che per potersene tornare in Brasile dovette vendere il letto e le poche cose che gli restarono per potersi pagare il biglietto della nave. E’ stato un santo sacerdote che occupa sicuramente un posto eminente nella storia e nella cultura di Mendicino, non solo per le opere che ha lasciato ma anche e soprattutto per la profonda azione morale, religiosa e civile che svolse per la edificazione della popolazione ed in special modo per la formazione cristiana della gioventù alla quale erano rivolte le sue maggiori attenzioni e le sue maggiori cure.

*sacerdote e giornalista

Fonte: Parola di Vita

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